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Saturday 6 June 2020

Premio Strega 2020: Il Colibrì - di Sandro Veronesi

Un’altra delle mie prime volte, quella con Sandro Veronesi. Come spesso mi accade, ho cominciato dalla ultima fatica, non sapendo bene che aspettarmi da un libro che, uscito da pochi mesi, era già dato per favorito al Premio Strega.

Il Colibrì di Sandro Veronesi, La nave di Teseo (2019)

In Il Colibrì, il protagonista Marco Carrera, oftalmologo, e’ un uomo come tanti, tra vizi e virtu’. Ne seguiamo la vita dalla nascita, nel 1959, fino alla morte, nel 2030. E qui e’ una delle prime caratteristiche del libro, che capitolo dopo capitolo ci porta avanti e indietro nel tempo, come se una folata di vento – tutto sommato benevola dato il risultato – avesse scompigliato il manoscritto dell’autore, impedendogli di seguire l’ordine cronologico. Inoltre, i diversi capitoli sono a volte classici, ma possono anche ridursi a poche righe di email, uno scambio di sms, o ancora una breve riga di cartolina.

In questo assemblare tempi e modi, Veronesi rivela tutta la sua bravura: non perde mai il filo, ne’ lo fa perdere al lettore.

Marco Carrera è anche il colibrì del titolo. Lo è fin da piccolo, per il soprannome affettuoso datogli dalla madre per un difetto di crescita, risolto solo a 15 anni grazie ad una cura ormonale. E lo è più tardi, in età adulta, secondo le parole della donna amata (platonicamente e da cui e’ platonicamente ricambiato):

“…tu sei davvero un colibrì. Ma certo. È stata un’illuminazione: tu sei davvero un colibrì. Ma non per le ragioni per cui ti è stato dato questo soprannome: tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei. Sei formidabile, in questo. Sei formidabile, in questo. Riesci a fermarti nel mondo e nel tempo, riesci a fermare il mondo e il tempo intorno a te, certe volte riesci addirittura anche a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto, così come il colibrì è capace di volare all'indietro.”

Il colibrì Marco, quindi, ci conduce con apparente facilità di anno in anno o di decennio in decennio in nessun ordine particolare, forte della virtù enunciata da Luisa. Ma nella vita sta anche fermo, a Firenze, dove mantiene la casa dei genitori e i ricordi della famiglia, senza mai arrendersi a cederli o a darli via. Tiene viva la memoria di chi è morto: Probo e Letizia, classica coppia di genitori di quell'epoca in cui l’infelicità coniugale non equivaleva al divorzio o alla separazione; quella dell’amata sorella Irene, morta suicida; della strana figlia Adele, legata a lui come con un filo e morta lasciando al mondo una figlia senza padre. Tiene vivo il legame con i vivi: la corrispondenza con il fratello Giacomo, emigrato in America e che mai gli risponde; quella con Luisa, emigrata a Parigi e con cui intrattiene un legame intenso ma mai consumato; con la ex moglie Marina, emigrata in Germania. Marco Carrera e’ li’, al centro di questa rete. Il suo destino si rivela nel momento in cui si trova, solo, ad accudire la nipote Miraijin (“uomo nuovo” in giapponese), questa figlia del mondo che ad esso da’ nuove speranze, che fa sempre la cosa giusta, dice sempre la cosa giusta. Miraijin e’ reale, ma forse e’ anche simbolo delle speranze riposte nelle nuove generazioni. 

Non credo sia casuale che l'uomo nuovo sia una donna, ne' che discenda da un uomo come tanti. Sembra rivoluzionare un po' quelli che sono i fondamenti della nostra religione: Gesù era l'uomo nuovo ed era il figlio di Dio. Qui Miraijin e' donna, ed e' eccezionale, discendente da un uomo che nulla ha di divino.

La parte più futurista del libro e’ anche quella, a onor del vero, meno piacevole.

Si parla molto di amore e si parla molto di morte. Ma questo affiancamento di Eros e Thanatos non e’ poi nulla che la letteratura non abbia ampiamente sfruttato, anche se il modo di Veronesi di affrontare la morte fa certo riflettere e regala alcune fra le pagine più belle del romanzo.

Una nota stilistica, in negativo. In un paio di occasioni, anche Sandro Veronesi si fa prendere dal gusto di lasciar correre la narrazione risparmiando sui punti fermi. E allora lancio un appello, una volta per tutte: Cari Autori, i punti fermi nei periodi sono belli e aiutano tantissimo a non snervare il lettore. Quelli che non li usano per scelta stilistica ci sono, ci sono stati (Joyce, Saramago, ...) Ma non è la normalità, non e' che senza punti è meglio, ne' e' un risparmio per la casa editrice o sulle emissioni di CO2. I vostri romanzi non ne guadagnano. Parola di lettrice.


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