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Monday 22 June 2020

Premio Strega 2020: Almarina - di Valeria Parrella

Almarina e'  nella sestina finalista del Premio Strega 2020, secondo a pari merito con Gianrico Carofiglio, uno dei favoriti per questa finale e uno dei beniamini dei lettori italiani in generale. 

L'autrice di Almarina, Valeria Parrella, e' un nome gia' noto - come scrittrice, ma anche giornalista e sceneggiatrice teatrale. Forse anche per questo e'  tra i finalisti - in rappresentanza delle tanto amate "quote rosa" - gia' per la seconda volta.

Il libro ha una storia interessante, se non contundente, anche per l'ambientazione: il carcere minorile di Napoli, a Nisida. Qui ogni giorno Elisabetta Maiorano, insegnante di matermatica, si reca per fare lezione a ragazzi e ragazze detenuti in attesa o di un trasferimento o semplicemente di scontare la pena prevista. Ma anche Elisabetta sembra scontare una sua personalissima pena, la pena di vivere senza il marito, morto all'improvviso, senza neanche lasciarle un figlio a farle compagnia. E' per fuggire da questa solitudine che Elisabetta si rifugia - paradossalmente - in carcere.
Ed e' qui che incontra la piccola romena Almarina, a sua volta fuggita dal suo paese e dalle violenze paterne solo per dover subire altre violenze, da altri uomini. Elisabetta scopre cosi' l'amore materno e a poco a poco riesce anche ad allontanare i suoi fantasmi.

La storia e' molto intimista, anche per lo stile lirico che l'accompagna. Solo che non si capisce mai bene dove Parrella voglia arrivare. E' un racconto che punta l'indice contro il maschio della specie? E' una denuncia della difficolta' di adottare un figlio? E' un modo per far conoscere la realta' dei carceri minorili? E' un esperimento letterario, che mischia diversi livelli di lirismo con scritti dal carcere e discese verso il napoletano parlato? Il punto e' proprio questo: non si capisce. Potrebbe essere addirittura un esperimento lasciato in un cassetto e tirato fuori ora, che la notorieta' lo permette.

C'e' tanto di buono in questo breve romanzo. Peccato non aver tirato le fila e non avere reso piu' omogeneo il testo. Forse avrebbe potuto aspirare a qualcosa di piu' della fascetta di "candidato".

Wednesday 17 June 2020

I cerchi nell'acqua - di Alessandro Robecchi

Diciamoci la verita'. Le serie a volte sono un tormento, proprio perche'  se non le si comincia dall'inizio e non le si segue religiosamente si perdono pezzi, episodi, evoluzioni. E poi e' ancor peggio se arriva quel momento in cui la serie comincia a perdere il proprio slancio vitale e allora son dolori. Come venire delusi da un amante di lunga data.
In parte e' per questo che non credo che Carofiglio possa vincere il Premio Strega 2020, nonostante la sua indiscussa popolarita'. Il suo La misura del tempo e' un episodio di una serie, e si sente. Senza gli episodi precedenti, ho sentito di non poterlo capire fino in fondo.

Ecco, con I cerchi nell'acqua di Alessandro Robecchi non mi e' successo. Ho letto questo episodio senza percepire la mancanza di quel "qualcosa".

I cerchi nell'acqua di Alessandro Robecchi
scuderia Sellerio


Il sovrintendete Tarcisio Ghezzi, seduto comodo in poltrona, racconta a Carlo Monterossi, relegato alla parte di puro ascoltatore (negli altri episodi e' il protagonista), tre filoni di indagine. Quella che ha seguito lui stesso, in via del tutto personale, e che consiste solo nel cercare un piccolo delinquente di cui la compagna Franca - vecchia prostituta - non ha piu' notizie.  Quella che ha seguito il suo partner sul lavoro, il Carella, anche lui in via del tutto personale, e che consiste in voler vendicare chi non può piu' farlo da solo. E quella che invece sta seguendo, finalmente in via del tutto ufficiale, la polizia:  la morte violenta di un noto antiquario restauratore di Milano.
Cosi', anche noi lettori, spettatori al pari di Monterossi, siamo costretti ad aspettare, seguendo i ritmi della narrazione del Ghezzi, fino a quando finalmente i cerchi nell'acqua cominciano ad intrecciarsi. E intanto ci ritroviamo fra poliziotti stanchi di fare sempre la cosa giusta (che qual e', poi, questa cosa giusta?), prostitute ammazzate di botte e la povera Rosa Ghezzi che ambisce solo ad avere una lavatrice nuova, mentre Milano scorre di giorno e di notte, con i suoi Navigli e le sue periferie.
Una cosa hanno in comune Robecchi e la generazione di scrittori di gialli e noir italiani cosi' popolari in questo momento. Sembrano essere stanchi - o quanto meno i loro personaggi sembrano essere avviati ad una stagione autunnale di mestizia e stanchezza:
Sono tutti stanchi, pensa ora Ghezzi. Gregori e' stanco, la Franca e' stanca, della sua vita e delle sue marchette. E' stanco anche il Salina, ci scommetterebbe, e lui e' stanco di cercarlo. Il paese e' stanco, spossato dall'attesa di cose che non verranno mai. E' quello che si dice sempre come massima ambizione, come orizzonte di speranza: una vita normale, un paese normale... non arriva mai, e intanto si aspetta, si sgrana il rosario delle giornate. E' un'attesa che sfianca, l'attesa di cosa, poi?

Forse Robecchi&company sono davvero specchio della nostra societa'. Stanca, spossata, in attesa di cosa non si sa. Ma tanto, anche a saperlo, non arriva mai.

Saturday 6 June 2020

Premio Strega 2020: Il Colibrì - di Sandro Veronesi

Un’altra delle mie prime volte, quella con Sandro Veronesi. Come spesso mi accade, ho cominciato dalla ultima fatica, non sapendo bene che aspettarmi da un libro che, uscito da pochi mesi, era già dato per favorito al Premio Strega.

Il Colibrì di Sandro Veronesi, La nave di Teseo (2019)

In Il Colibrì, il protagonista Marco Carrera, oftalmologo, e’ un uomo come tanti, tra vizi e virtu’. Ne seguiamo la vita dalla nascita, nel 1959, fino alla morte, nel 2030. E qui e’ una delle prime caratteristiche del libro, che capitolo dopo capitolo ci porta avanti e indietro nel tempo, come se una folata di vento – tutto sommato benevola dato il risultato – avesse scompigliato il manoscritto dell’autore, impedendogli di seguire l’ordine cronologico. Inoltre, i diversi capitoli sono a volte classici, ma possono anche ridursi a poche righe di email, uno scambio di sms, o ancora una breve riga di cartolina.

In questo assemblare tempi e modi, Veronesi rivela tutta la sua bravura: non perde mai il filo, ne’ lo fa perdere al lettore.

Marco Carrera è anche il colibrì del titolo. Lo è fin da piccolo, per il soprannome affettuoso datogli dalla madre per un difetto di crescita, risolto solo a 15 anni grazie ad una cura ormonale. E lo è più tardi, in età adulta, secondo le parole della donna amata (platonicamente e da cui e’ platonicamente ricambiato):

“…tu sei davvero un colibrì. Ma certo. È stata un’illuminazione: tu sei davvero un colibrì. Ma non per le ragioni per cui ti è stato dato questo soprannome: tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei. Sei formidabile, in questo. Sei formidabile, in questo. Riesci a fermarti nel mondo e nel tempo, riesci a fermare il mondo e il tempo intorno a te, certe volte riesci addirittura anche a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto, così come il colibrì è capace di volare all'indietro.”

Il colibrì Marco, quindi, ci conduce con apparente facilità di anno in anno o di decennio in decennio in nessun ordine particolare, forte della virtù enunciata da Luisa. Ma nella vita sta anche fermo, a Firenze, dove mantiene la casa dei genitori e i ricordi della famiglia, senza mai arrendersi a cederli o a darli via. Tiene viva la memoria di chi è morto: Probo e Letizia, classica coppia di genitori di quell'epoca in cui l’infelicità coniugale non equivaleva al divorzio o alla separazione; quella dell’amata sorella Irene, morta suicida; della strana figlia Adele, legata a lui come con un filo e morta lasciando al mondo una figlia senza padre. Tiene vivo il legame con i vivi: la corrispondenza con il fratello Giacomo, emigrato in America e che mai gli risponde; quella con Luisa, emigrata a Parigi e con cui intrattiene un legame intenso ma mai consumato; con la ex moglie Marina, emigrata in Germania. Marco Carrera e’ li’, al centro di questa rete. Il suo destino si rivela nel momento in cui si trova, solo, ad accudire la nipote Miraijin (“uomo nuovo” in giapponese), questa figlia del mondo che ad esso da’ nuove speranze, che fa sempre la cosa giusta, dice sempre la cosa giusta. Miraijin e’ reale, ma forse e’ anche simbolo delle speranze riposte nelle nuove generazioni. 

Non credo sia casuale che l'uomo nuovo sia una donna, ne' che discenda da un uomo come tanti. Sembra rivoluzionare un po' quelli che sono i fondamenti della nostra religione: Gesù era l'uomo nuovo ed era il figlio di Dio. Qui Miraijin e' donna, ed e' eccezionale, discendente da un uomo che nulla ha di divino.

La parte più futurista del libro e’ anche quella, a onor del vero, meno piacevole.

Si parla molto di amore e si parla molto di morte. Ma questo affiancamento di Eros e Thanatos non e’ poi nulla che la letteratura non abbia ampiamente sfruttato, anche se il modo di Veronesi di affrontare la morte fa certo riflettere e regala alcune fra le pagine più belle del romanzo.

Una nota stilistica, in negativo. In un paio di occasioni, anche Sandro Veronesi si fa prendere dal gusto di lasciar correre la narrazione risparmiando sui punti fermi. E allora lancio un appello, una volta per tutte: Cari Autori, i punti fermi nei periodi sono belli e aiutano tantissimo a non snervare il lettore. Quelli che non li usano per scelta stilistica ci sono, ci sono stati (Joyce, Saramago, ...) Ma non è la normalità, non e' che senza punti è meglio, ne' e' un risparmio per la casa editrice o sulle emissioni di CO2. I vostri romanzi non ne guadagnano. Parola di lettrice.