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Saturday 25 April 2020

Premio Strega 2020: Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio - di Remo Rapino

Liborio Bonfiglio - o, come direbbe lui stesso, Bonfiglio Liborio - ha 80 anni quando decide che e' tempo di scrivere le sue memorie.
Liborio e' nato nel 1926 in un paese imprecisato dell'Italia del Sud. La sua lunga vita si intreccia con la Storia: dalla guerra al boom economico, dalle attività sindacali in fabbrica al lavoro nei campi, dalla lotta di classe all'occupazione delle università, agli anni di piombo fino alla nascita di nuovi partiti politici e alla paura per l'inizio del Nuovo Millennio, all'attacco alle Torri Gemelle. Per parte sua, vive la guerra da orfano, il boom economico in fabbrica al Nord, le crisi economiche con i numerosi licenziamenti, si iscrive alla FIOM, visita l'università a Bologna, finisce in manicomio a Imola - per tornare poi al paese.
E' dal punto di vista di questo personaggio solitario - ma non per sua scelta - e, a detta di tutti, con qualche rotella fuori posto che il lettore rivive la storia italiana. Liborio e', a tutti gli effetti, un Forrest Gump nostrano - c'e' anche l'amore di una vita (non corrisposto) per Teresa e un amico amputato. Manca solo la panchina. Il suo umorismo e' del tutto involontario, come quello di Forrest. Strappa qualche sorriso.

"Ma proprio antipatici mi ricordo che mi erano i bambini ricchi come Nobis e Derossi e sulle palle mi ci stava pure quel Bottini, padre e figlio, che si scrivevano le lettere anche se abitavano alla stessa casa e che erano due culi pesanti che stavano sempre a cercare il pelo nell'uovo e rompevano scatole e scatoloni per ogni cosa che succedeva, ogni parola, ogni fattarello scemo, sempre schiena dritta e pancia in dentro, che sembrava una caserma dei carabinieri quella casa di Bottini, che questo si fa e quello non si fa, che secondo me in quella casa i dieci comandamenti di sicuro erano più di dieci."

Le parti umoristiche e la semplicità del personaggio (che in fondo  semplice non e') non bastano pero' ad elevare il romanzo alla categoria "grande". A parte l'evidente calco su Forrest Gump di cui ho detto, e' lo stile a rendere faticosa la lettura. Volutamente impestato di dialetto, colloquialismi e strafalcioni linguistici, sempre piu' vicino al flusso di coscienza, con pensieri lunghi e poche pause, lo stile cerca di riprodurre da una parte il basso livello di alfabetizzazione del narratore e, dall'altra, l'estrema confusione che c'e' nella sua testa. Anche le continue ripetizioni, legate ad alcuni chiodi fissi del narratore, sono tipiche dell'eta' avanzata e di quei ricordi che permangono dall'infanzia. Come il ricordo del padre, mai visto, che si ripete cosi' ogni poche pagine:

"A me mia madre mi diceva che io avevo gli occhi uguali ai suoi. Questo solo so." (pag. 7)
"... mi raccontava storie e favole che mo' non me lo ricordo bene e che forse  e' meglio che me lo sono scordato, a parte quella storia che avevo gli occhi uguali a quelli di papa' mio." (pag. 13)
"...e mi veniva in mente di fare lo stesso viaggio per andarlo a ritrovare, almeno per vedere se era vero che lui aveva gli occhi come me e io come lui." (pag. 20)
"... e per vedere se davvero avevo gli occhi come i suoi, che cosi' mi diceva sempre mia madre..." (pag. 23)

Queste ripetizioni, tra l'altro copiose e ravvicinate, non aiutano certo a digerire con più facilita' la scrittura.
La tentazione di abbandonare il romanzo senza finirlo e' stata davvero forte.
Ma proprio perché l'ho portato comunque a termine sento di poter affermare che non ha le carte in regola per entrare nella cinquina finalista al Premio Strega 2020. ... avro' ragione?



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