Certe volte l’età di un autore e’ importante. Lo
e’ in questo caso.
Gian Arturo Ferrari, classe ’44, con Ragazzo
italiano propone un romanzo di formazione e di storia dell’Italia del
dopoguerra.
Attinge a piene mani dalla sua esperienza di
vita, tra Emilia e Lombardia, e ricrea atmosfere familiari e conosciute, echi
di cose viste o sentite dire.
Lo fa attraverso gli occhi del bambino Ninni, diviso
tra Querciano (comune fittizio dell’Emilia), Zenegrate (comune fittizio della
Lombardia) e la per niente fittizia Milano. Il bambino si fa ragazzino,
Ninni/Piero, e poi ragazzo, abbandonando per sempre il “Ninni” e trovando la
sua identità come Piero e basta.
Le piccole vicende del protagonista danno il la,
di volta in volta, all'introduzione di aspetti e dettagli di costume e società,
politica e cultura.
“Il contenuto dei programmi, fatta eccezione
per Lascia o raddoppia?, che aveva la capacità mitopoietica di trasformare in
eroi i suoi concorrenti, non aveva grande importanza, anzi nessuna. Non si
guardava questo o quel programma, ma la televisione in quanto tale, sempre e
comunque. Per questo si facevano preferire i programmi lunghi, dove non si
doveva cambiare prospettiva, argomento, personaggi e si poteva invece gustare
appieno la televisione in sé.”
La
tecnica della giustapposizione dei diversi quadri di vita italiana richiama un
precursore emiliano eccellente, l’ottimo Guareschi e la sua saga dedicata a Don Camillo e Peppone.
È anche evidente l’influenza del cinema
neorealista, soprattutto nelle scene legate a Milano: le baracche della
periferia, e l’architettura che cambia man mano che ci si avvicina al suo
cuore, il Duomo, sembrano un chiaro tributo a Miracolo a Milano.
“Dunque, Milano era un posto complicato. Ci
vivevano quelli delle baracche con le candele e le pantegane, e a mezz’ora di
tram, in case che non si potevano neanche immaginare, abitava gente che
mangiava con venti posate d’argento a testa. E loro?”
Ninni (e Piero poi) e’ un grande osservatore,
un giusto mix di ingenuità e curiosità, l’occhio perfetto per documentare
l’Italia e la sua famiglia che cambia con essa:
“La gente, per le strade, sul tram, aveva
perso quell’aria spiritata di prima, quando si capiva che si stavano giocando
tutto, che non avevano riserve. Non si appendevano più fuori dal tram, non
combattevano negli ambulatori, non cercavano, disperatamente, di andare avanti.
(…) Ingrigivano. Anche il babbo, che a casa non lavorava piu’, ingrassava,
aveva perso lo scatto.”
Ninni/Piero
e’ anche un amante della letteratura e a poco a poco si rivela portato per le
materie umanistiche, e per la scrittura in particolare. La precisione
stilistica, classica ed elegante, l’amore per il dettaglio, sono in parte
collegabili al suo gusto per la lettura e la scrittura, ereditati dalla nonna
maestra, ma anche un sicuro indizio della formazione dell’autore e una piena
realizzazione di quello che e’ a tutti gli effetti un romanzo classico. Niente
sperimentazioni, qui. Solo il lento, preciso passo di un vecchio signore che
sembra guidare per mano il suo piccolo protagonista, additandogli di volta in
volta i dettagli, spesso raccolti in sontuosi elenchi:
“La piu’ interessante pero’ era un’altra,
questa sicuro prozia, che pur essendo molto voluminosa abitava con un marito
minuscolo in un appartamento non piccolo, ma fatto di una sequela di stanzette
piccolissime. Ognuna delle quali era stipata fino all'inverosimile di ogni
sorta di chincaglierie, cimeli, memorie. Quadretti, statuette, vasetti,
cofanetti, scatolette, borsette, per non parlare degli album di fotografie,
delle lenti d’ingrandimento, degli orologi, dei fermacarte, degli occhiali da
sole, dei ventagli…”
Peccato per l'ombra del finale, una sorta di epifania
sulle rovine classiche della Grecia, la culla dell’umanesimo, dove Piero sembra
dimenticare tutto quanto è successo nei diciotto anni precedenti e vivere una
illusione che stona rispetto al realismo che caratterizza, invece, tutto il romanzo.
La “coda” è l’unico pendaglio sull'albero a non stare in piedi:
“Un tema era un percorso con un capo e una
coda. Non bastava appendere all'albero i pendagli e poi togliere l’albero, in
realtà i pendagli erano tutti connessi, chi leggeva il tema doveva passare dall'uno all'altro come guidato, condotto per mano. Ma senza accorgersene”.
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